Il dipendente che usa in maniera sistematica la connessione internet aziendale per fini personali può essere licenziato per giustificato motivo soggettivo. E l’azienda che usa degli strumenti di controllo a distanza per accertare l’utilizzo irregolare dei beni aziendali non è soggetta alle regole previste dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori, in quanto queste si applicano solo se il controllo riguarda lo svolgimento della prestazione, mentre non riguardano l’accertamento di eventuali illeciti del dipendente.Queste le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione con la sentenza n. 14862 depositata ieri, con la quale è stata confermata la legittimità del licenziamento intimato da un datore di lavoro nei confronti di un dipendente che aveva abusato ripetutamente della connessione internet messa a disposizione dall’azienda.

Tale dipendente si era connesso a siti internet estranei all’attività professionale per ben 27 volte, nell’arco di due mesi, restando collegato per 45 ore complessive. La Società aveva licenziato il dipendente per giusta causa, e la Corte d’Appello di Bologna aveva confermato la validità del recesso, pur mutando il titolo in giustificato motivo soggettivo, in considerazione dell’assenza di precedenti e dell’esiguità del danno subito dall’azienda.

La Suprema Corte conferma questa ricostruzione, evidenziando che il numero e la durata delle connessioni a siti personali dimostra che è stato fatto un reiterato utilizzo per fini personali dello strumento aziendale, da un lato, e la natura intenzionale della condotta, dall’altro.

La sentenza esclude, inoltre, che i controlli effettuati dall’azienda per accertare l’utilizzo indebito della connessione possano configurarsi come controlli a distanza, soggetti alla regole previste dall’art. 4 dello statuto dei lavoratori. Questa norma, osserva la Corte, disciplina le forme e le modalità di controllo che hanno per oggetto la prestazione lavorativa e il suo esatto adempimento, mentre non si applica a quei comportamenti illeciti del dipendenti capaci di ledere l’integrità del patrimonio aziendale, il regolare funzionamento degli impianti e la loro sicurezza. Questa affermazione, non del tutto nuova (si veda anche Cass. 10955/2015) è molto importante, in quanto libera dai vincoli dell’art. 4 dello statuto tutti quei controlli effettuati per la finalità di accertare la commissione di illeciti gravi da parte dei lavoratori.

La Corte esclude, inoltre, che l’azienda abbia violato le regole che tutelano la riservatezza e la privacy del dipendente, nel momento in cui ha verificato le modalità di utilizzo della connessione internet, in quanto il datore di lavoro non ha analizzato quali siti sono stati visti durante la navigazione, non ha visto la tipologia di dati che sono stati scaricati e non ha accertato se questi sono stati salvati sul personal computer. La società, invece, si è limitata ad analizzare i dettagli del traffico di connessione, che non costituiscono dati personali, in quanto non forniscono alcuna indicazione in merito alla persona e alle sue scelte politiche, religiose, culturali o sessuali. I dati della connessione, secondo la Corte, forniscono solo elementi quantitativi di carattere generale, che possono essere riferiti – senza alcuna capacità di individuazione – a un numero indistinto di utenti della rete.

Fonte: lavoroeimpresa.com

Giampiero Falasca – Il Sole 24 Ore 

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